Plastic free

Plastic free

Abbiamo parlato nella precedente news della Direttiva Europea approvata il 5 giugno, volta a cercare di ridurre drasticamente la plastica dai rifiuti marini. Una volta pubblicata, gli Stati membri devono tradurla in iniziative concrete che, entro il ragionevole lasso di tempo di due anni, portino all’obiettivo prefissato a livello europeo del divieto dal 2021 dell’utilizzo di prodotti in plastica monouso (usa e getta).

Per alcuni prodotti come il caso delle bottiglie in plastica, l’applicazione della direttiva si tradurrà in variegate misure, quali la raccolta separata da altri materiali in plastica, la presenza di una percentuale consistente di materiale riciclato (che dovrà arrivare al 30%), l’uso di tappi solidali con il resto della stessa, (successivamente non separabili dal contenitore), il coinvolgimento economico dei produttori per l’implementazione di sistemi efficaci di raccolta a fine vita e pulizia di aree inquinate, la messa in atto di campagne di sensibilizzazione per il consumatore, che lo rendano consapevole che uno smaltimento improprio ha gravi ripercussioni sull’ambiente.

In Italia oltre 100 Comuni hanno già emesso disposizioni che vietano l’utilizzo di bicchieri e posate in plastica in specifiche aree del comune, negli uffici pubblici, o in servizi offerti come le mense comunali, fino a spingersi al divieto di commercializzazione degli stessi in esercizi commerciali, compresi i supermercati, siti nel territorio comunale.

E’ importante in questa fase distinguere con molta attenzione plastiche biodegradabili e plastiche compostabili, termini spesso erroneamente utilizzati come sinonimi. Tutti i materiali sono biodegradabili o sono attaccati da microorganismi e da agenti atmosferici che li scompongono nel tempo in acqua, anidride carbonica e metano: la differenza la fa il tempo impiegato perché questo avvenga. La plastica di per sé ha tempi lunghissimi. Quindi la normativa europea EN 13432 del 2002 ha stabilito che un materiale plastico è biodegradabile solo se questo processo avviene al 90% entro 6 mesi. Non tutti i materiali, invece, sono compostabili: un materiale è definito tale se nell’arco di 3 mesi si trasforma in compost, utilizzabile come fertilizzante naturale. Questa confusione ha fatto sì che spesso si utilizzasse per la raccolta della frazione umida sacchetti non idonei: infatti un sacchetto lo è solo se riporta entrambe le diciture, biodegradabile e compostabile.

Dopo i comuni anche la Grande Distribuzione Organizzata si è associata alla lotta contro la plastica monouso, con un comunicato che entro il termine del 30 giugno 2020 i supermercati aderenti non esporranno più stoviglie in plastica monouso.

Sembra tutto perfetto, ma in realtà vi una serie di problematiche da evidenziare. La prima riguarda i prodotti freschi pronti al consumo che attualmente costituiscono il 70% degli acquisti nel nord e centro Italia: eliminando la plastica monouso si dovrà ricorrere all’utilizzo di più banchi refrigerati e questo aumenterà le emissioni che inducono alterazioni climatiche. Inoltre, dovrebbero essere escluse dal divieto le plastiche biodegradabili e compostabili, ma ad ora non vi è ancora alcuna chiarezza in merito. Continuando, un altro comparto toccato dalla normativa è quello della ristorazione, che beneficia non poco del monouso. Gli permette, infatti, di non lavare e gestire le stoviglie, cosa che si traduce in minor personale da coinvolgere, minori costi e quindi possibilità di offrire prodotti a prezzi più contenuti. Un cambio di tendenza significa per questo comparto dover rivedere anche in termini economici il proprio assetto operativo, mantenendo i prezzi pressoché inalterati per il consumatore: una sfida non da poco, che per essere vinta, richiede il concorso dei produttori e della legislazione in modo da favorire soluzioni in linea con il plastic free a prezzi convenienti.

Per finire, un altro nodo da sciogliere riguarda gli impianti di compostaggio nazionali: questi sono attualmente strutturati per smaltire correttamente plastiche compostabili solo entro una determinata percentuale: un cambio repentino di rotta aumenterebbe pericolosamente questa percentuale, mettendo in seria difficoltà tutto il comparto. Attualmente sembra che la tendenza sia quella di utilizzare il PLA o acido polilattico, il polimero dell’acido lattico. Purtroppo, questo materiale non è in sé biodegradabile, ma lo diventa in determinate condizioni: richiede una temperatura di almeno 60°C e un’umidità di almeno il 20%. In conseguenza è necessario un circuito di raccolta e di smaltimento adeguato, oltre al fatto di informare adeguatamente l’utilizzatore a riconoscerlo e smaltirlo correttamente, cosa che si sa non essere solo una questione di etichettatura.

Gli studi e le conseguenti azioni da intraprendere sono quindi molteplici per raggiungere il giusto equilibrio ed essere davvero efficaci nella lotta contro l’inquinamento indotto dai rifiuti in plastica, senza innescare altre pericolose ripercussioni.

Fonte: Polimerica